Se avete voglia di spendere 10 euro e 50 per assistere a un videogioco di due ore e mezza che avete visto cento volte gratis quando, vagando in rete, avete cliccato per sbaglio sul banner di Prada o di Sotheby’s Realty (immobili di pregio), potete seguire il mio esempio e andarvi a vedere la versione in 3D del Grande Gatsby firmata da Baz Luhrmann.
Se invece una simile esperienza di ascesi per principianti (a un quarto d’ora dall’inizio del film starete già pensando a tutto ciò che non accade sullo schermo) volete viverla per soli sei euro il mercoledì sera, potete fare sempre come me e dedicare la vostra delusione settimanale alla Grande Bellezza di Paolo Sorrentino.
Avevo enormi aspettative su questo film sin da quando doveva farlo Matteo Garrone, e aveva ingaggiato Walter Siti (incontrato dal sottoscritto un mercoledì sera di qualche tempo fa al rione Monti, scuro in volto a causa del progetto sfumato) per scrivere un film su Fabrizio Corona che era poi un parlare per slogan a proposito del film sull’Italia cafonal di questi anni che nessuno aveva ancora realizzato. Quando il progetto naufragò, Garrone ne imputò in via ufficiale il fallimento all’impossibilità di trasporre cinematograficamente una realtà la cui autorappresentazione (da Dagospia a Porta a Porta ai festini della Regione Lazio) era ed è talmente potente e pervasiva da non poter essere guardata (e dunque modificata) da un occhio che non fosse già il proprio. Nell’epoca in cui l’ufficialità del Parlamento o delle prime serate tv sembrano usciti da un servizio di Terry Richardson o da un disegno di Mannelli senza che né Richardson né Mannelli abbiano mosso un dito, cos’altro vuoi inventarti? Questa, in sintesi, la tesi di Garrone mentre andava preparandosi per Reality.
Verrebbe voglia di dare ragione al regista di Gomorra vedendo il film di Sorrentino (un trailer lungo quasi due ore e mezza, noia e piattezza elevati a big professionismo, annegato per tre quarti nell’autocompiacimento e in tutto ciò che può essere preso in prestito da un bello spot Jägermeister girato tra villa Medici e il Lungotevere degli Anguillara, il resto è vero talento) se non fosse che l’arte – romanzesca, cinematografica, pittorica, teatrale – è sempre più in gamba della realtà che le sta intorno. Quando è ispirata e ne ha la forza, è capace di digerire tutta ma proprio tutta la stupidità del proprio tempo restituendola ai nostri occhi firmata Ernst Lubitsch (To Be or Not to Be) per non tacere di Luis Buñuel.
Se La Grande Bellezza è il brutto film di un regista di talento, dipende allora da un altro problema.
La storia è ridotta all’osso: Jep Gambardella, giornalista in dissipatio con un passato da scrittore (pericoloso speculare del Marcello Rubini felliniano che rimanda sempre a domani il primo romanzo e scrive intanto pezzi scandalistici) nuota con disincanto nella mondanità romana ridotta a radical trash. Fine. Non è tuttavia la quasi assenza di una trama a dilatare in modo micidiale queste due ore nella movimentazione dei 485 minuti di Empire (il film in cui Andy Warhol si limitava a inquadrare l’Empire State Building dalle otto di sera alle tre meno un quarto del mattino ottenendo con semplicità l’effetto identico-a-sé-stesso la cui conquista a Toni Servillo costa al contrario un massacrante facchinaggio per tutte le feste mondane della capitale), dal momento che Roma di Fellini una trama ce l’aveva per esempio ancora meno, così come oggi a una storia vera e propria storia possono tranquillamente rinunciare il Pietro Marcello della Bocca del lupo o il Michelangelo Frammartino delle Quattro volte, sempre che non vogliate andare all’estero e rituffarvi nel Paranoid Park di Gus van Sant o nel magnifico Sole fuori e dentro l’Ermitage di Aleksandr Sokurov.
L’errore – come accade a volte ai talentuosi – è simile a chi voglia scrivere un romanzo su madame Bovary (Flaubert e il suo desiderio di scrivere un libro sul nulla è continuamente citato da Servillo-Gambardella) e finisce per scrivere il romanzo di madame Bovary. Non cioè come l’avrebbe scritto Gustave ma Emma (il primo può dire della seconda c’est moi ma il contrario risulterebbe rovinoso).
La grande bellezza è allora lo strano caso di una sindrome di Stoccolma rovesciata. Il rapitore si lascia ipnotizzare dal rapito. Non è in definitiva il film di Paolo Sorrentino che prende il punto di vista di Marta Marzotto e Belen Rodriguez e Stefano Ricucci e Roberto D’Agostino e Roy De Vita e Barbara Palombelli e Fabrizio Corona e il cardinal Ruini, ma l’opera di Marta Marzotto e Roberto D’Agostino che invece di fare Mutande pazze si ritrovano magicamente con la bella fotografia e la capacità tecnica di realizzare un piano sequenza proprio come lo farebbe Sorrentino, messo al servizio tuttavia sempre di Mutande pazze con pretese di autorialità.
Ecco allora a inizio film la stessa ma proprio la stessa epigrafe di Céline che da ragazzi ricopiavamo sul diario del liceo (“Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica…”) Ecco Toni Servillo che interpreta Toni Servillo che interpreta Jep Gambardella. Ecco il povero Roberto Herlitzka costretto a rifare un brutto se stesso nei panni di un cardinale con la fissa della gastronomia (è pur sempre il grande attore di teatro prestato al cinema per come lo immaginerebbe la moglie di un qualunque sindaco di Roma in area PD non dopo averlo visto effettivamente recitare a teatro ma dopo averne letto un’intervista su «Io Donna» e sulla base di questa aver modificato la percezione teatrale effettivamente consumata all’Argentina).
Ecco un’estetica della città patinatissima, in fin dei conti vuota in sé ma non nella restituzione di un’idea di vuoto (cioè il contrario richiesto a un film del genere), un’estetica che avrebbe forse in Leni Riefenstahl il suo modello alto ma poi finisce per ridursi a videoclip o forse meglio a un saggio davvero molto buono di videoarte sponsorizzata da una casa di moda (la cui responsabilità nell’attrarre prima e poi sottrarre senso agli occhi dei registi non è stata in questi anni abbastanza indagata).
Ecco l’elaboratissima superficialità di certa Chiesa restituita con elementare superficialità. Ecco, soprattutto, l’assenza totale di Roma, il cui vuoto pneumatico è purtroppo anche questo preso a prestito da una qualunque Dagospia (che batte il film poiché finisce per imporsi come l’originale da cui far scendere l’operazione di secondo grado), dimenticando che il cinismo e il nichilismo secolari della città sono più vasti e potenti e interessanti di quanto possa contenerne un sito internet o le pagine di «Chi». Bisogna farsi attraversare da Roma, e amarla per poi farsi tradire e fottere (o il difficilissimo e sublime opposto: farsi amare e tradirla sul più bello) per poter raccontare qualcosa di questo enorme e bellissimo e orrendo crollante mondo urbano.
Unica a salvarsi: Sabrina Ferilli. Nell’interpretazione del suo personaggio (una spogliarellista in avanti con gli anni) c’è qualcosa di autenticamente doloroso, forse anche di disperato, qualcosa che a un certo punto sembra non riguardare più solo il suo personaggio, tanto che verrebbe voglia di mollare Servillo e i suoi doppi e seguire solo lei.
A questo punto i veri cinici – in rete, sui giornali, nei circoli cinefili – iniziano a dire che Paolo Sorrentino è finito. Stupidaggine anche questa. Non è affatto la mia opinione. Io spero che un regista dotato e ambizioso come lui abbia invece appena iniziato (dal fallimento forse anche fisiologico dell’ultima parte di quella precedente) la sua seconda vita. C’è chi riesce a smarcarsi appena in tempo, ma anche i migliori cadono in questo genere di buche (ricordate Fuoco cammina con me di Lynch?)
L’immaginario nato fresco con L’uomo in più, rafforzato con Le conseguenze dell’amore, volante sulle stampelle della biopic del Divo, è crollato totalmente trasformandosi in maniera pura ne La grande bellezza. Un film molto brutto di un bravo regista il cui futuro (al contrario di Gambardella) non è alle spalle ma davanti, se davvero avrà il coraggio di inseguirlo.