Pubblichiamo un pezzo di Giuseppe Sansonna uscito su Orwell. (Immagine: È stato il figlio, Daniele Ciprì.)
I mostri di celluloide sono in via di estinzione. Dino Risi e affini ne avevano catalogati a decine, negli anni sessanta. Da troppo tempo, invece, non trovano più spazio sugli sbiaditi schermi del cinema italiano. Monotono nel riproporre macchiette anemiche, di maniera. In perenne affanno rispetto ad una realtà affollata da devianze antropologiche, nate a imitazione della televisione più corriva. L’attuale commedia italiana, salvo rare eccezioni, ai baccanali grossolani della Roma polveriniana contrappone le prostitute edificanti di Nessuno mi può giudicare. Del Satyricon in perenne espansione in cui viviamo non rimane traccia nelle commedie giovanili in serie, nelle stucchevoli notti prima degli esami, nelle pochade vacue di Salemme e affini. Una presenza perturbante come Ratzinger, un tempo, avrebbe acceso le contorsioni visive di Petri e Ferreri. Oggi, affiancato da Checco Zalone, diventa un caratterista minimo, un vecchietto bonario goloso di cozze pelose e con l’accento da Sturmtruppen.
Non è semplice trovare una misura per raccontare un contesto già barocco, senza sbracare nella volgarità compiaciuta dei film natalizi. Implacabili nel replicare trionfalmente l’esistente, senza traccia di senso critico. Ci vorrebbero degli autori, autonomi e consapevoli dei propri mezzi. Ma anche loro sembrano in difficoltà. Emblematico il caso di Daniele Ciprì, recentemente celebrato a Venezia. Nicola Ciraulo, protagonista del suo È stato il figlio, sembra il rigurgito postumo di un cinema perduto. Ha la faccia dolente di Toni Servillo e vive in una Palermo metafisica, circoscritta a grigi palazzoni di cemento. Un sottoproletario piccolo piccolo, primo parto autonomo del regista palermitano, esordiente alla regia solitaria dopo la separazione artistica da Franco Maresco.
La coppia partì dai lampi televisivi di Cinico Tv per inventare un cinema estremo, radicale. Affogarono la commedia all’italiana in un gorgo grottesco, incastrando in abbacinanti campi lunghi le macerie edili e umane di Palermo. Ingaggiando nelle periferie della città freaks autentici, ridotti all’aprassia frontale e bidimensionale, come icone bizantine in decomposizione. Sospese tra la bruta fisiologia e un linguaggio disfunzionale, pieno di rantoli dialettali, tendente alla progressiva afasia beckettiana. Nei primi anni novanta regalavano risate raggelanti a malcapitate famiglie, sedute a tavola per cena, sintonizzate sulla Rai Tre anarcoide di Angelo Guglielmi. Il loro cinema ne estremizzerà ulteriormente la poetica, trascinandola ai limiti dell’insostenibilità. Rendendo lancinante la nostalgia dell’umano, come scrive Emiliano Morreale ne L’invenzione della nostalgia (Donzelli, 2009).
È stato il figlio induce invece a pensare che Ciprì, accantonata la cupa profondità teorica di Maresco, abbia ricominciato a credere nel cinema amato, citandolo entusiasta e rinunciando a stuprarlo. Il suo Ciraulo è una summa vivente della tradizione comica italiana. Canottiera unta e occhiali appannati, esibisce smorfie di compiaciuta ebetudine, camminate di tronfia miseria, sussurri eccitati. La figlia del protagonista viene uccisa per sbaglio, da sicari maldestri. Ma il dolore svapora subito, bruscamente soppiantato dalla brama per una Mercedes, da comprare con i soldi destinati alle vittime di mafia. Un oggetto del desiderio che innescherà nuove tragedie. Eppure nel film latitano quasi del tutto pathos e ferocia, nonostante alcuni intermittenti lampi di regia. Celebrato a Venezia, È stato il figlio sembra una galleria di personaggi tendenti al buffo, fondamentalmente innocui.
Molto distanti dal pescivendolo napoletano protagonista di Reality, ultimo film di Matteo Garrone. Il regista romano elude gli stereotipi, cucendo il suo protagonista sull’aspra autenticità di Aniello Arena, detenuto e attore nel carcere di Volterra. Lo sguardo di Garrone gli ansima addosso, con attento pudore. Ne descrive senza cinismo la spasmodica attesa di una chiamata nella casa del Grande Fratello, dopo un provino in cui ha confessato dolori e miserie, mai svelate nemmeno agli intimi. Reality racconta l’impatto di un brand al tracollo, soppiantato da format più estremi. I cui effetti sono però penetrati da tempo nel dna italiano: lo sversamento puntuale delle proprie mestizie interiori per accedere a qualche istante di visibilità è un tic ormai endemico, socialmente trasversale. Ma il protagonista di Garrone rimane una vittima. Il mostro vero, il suo gioviale carnefice, è rimasto fuori campo. È facile però immaginarlo come un autore televisivo dalle buone letture. Sorridente, quando ti confessa di non guardare più la televisione e di proibirla ai suoi figli. Nel suo passato intravedi un eskimo e intuisci qualche molotov. Nel suo presente c’è solo un’affettata contrizione per la deriva morale del mondo e per le spietate leggi dell’audience. Con sommessa ferocia, passa i suoi giorni a scansionare menti fragili e poco strutturate, meglio se con un passato ricco di traumi e disturbi alimentari. Nobilitando con banale erudizione il proprio ruolo sociale: “In fondo il reality è come la Commedia dell’Arte. Noi gli diamo un canovaccio, e loro fanno il resto”.
Paolo Sorrentino e lo stesso Garrone ne hanno scolpiti diversi, di personaggi così complessi, rivelatori. Ma rimangono due eccezioni isolate, eccentriche, in un panorama cinematografico che tende a ripiegarsi su cliché da fiction televisiva. Il nostro cinema appare zavorrato da autocensure aprioristiche e limitazioni produttive, ostaggio di un mercato monopolista, implacabile nel banalizzare il gusto, più letale di qualsiasi forma di censura. Non incide nessun immaginario collettivo e non coglie sintomi di un futuro possibile. Eppure, proprio in virtù di questo senso immanente di crisi, che sembra vanificare ogni legge commerciale, bisognerebbe concedersi lussi autoriali sfrenati. Con la disperata vitalità di chi non ha più nulla da perdere.