Questo pezzo è uscito sul Venerdì, che ringraziamo.
Nei cassetti di Paolo Sorrentino: appunti di ricordi insulsi o fondativi destinati a esplodere in scene fiammeggianti, o a delineare personaggi. Ritagli. Immagini. Sentimenti lasciati a galleggiare in attesa che si palesino. Progetti saltati, rimandati, ripresi, che tengono a bada l’horror vacui. Insomma, era il 2013 e il regista aveva il suo da fare montando La grande bellezza, ma nei cassetti scivolò la storia di un giovane papa americano fico, conservatore e pieno di contraddizioni. A dire il vero, lui era preso da un’altra santità, quella di padre Pio: aveva letto la biografia di Sergio Luzzatto e gli era piaciuta molto.
Lorenzo Mieli, il produttore prodigio della Wildside, sapeva di questa passione e gli aveva proposto di farne una serie: «Ma in tv di padri Pii ce n’erano stati già due, e un terzo, per quanto diverso, non mi pareva il massimo. Gli ho prospettato invece questa storia sul Vaticano e mi sono messo a scribacchiarla, sicuro che, in un Paese come il nostro, sarebbe stata lettera morta. Invece Mieli mi ha preso sul serio, ha combattuto per realizzarla; è intervenuta massicciamente Sky, poi siamo andati da Hbo, che per la prima volta ha coprodotto una serie europea. È un pionierismo di cui siamo fieri: ha aperto la strada a progetti come la saga della Ferrante e il Limonov di Carrère. I più grandi producer di serie tv al mondo chiedono a noi italiani se abbiamo qualcosa di buono e dicono: bene, facciamola insieme».
Appunto: lei l’ha fatta la comunione?
«Certo, anche la cresima. E l’ambiente religioso lo conosco abbastanza perché ho studiato dai salesiani, al liceo. Sono mondi particolari, a connotazione sessuale unica: solo maschi o femmine, quindi prevedono tutte le aberrazioni del caso».
«Non so: ho fatto dieci puntate – dovevano essere otto, ma mi sono allungato – su delle persone presumibilmente immerse nella fede e non ho ancora le idee chiare. Confido nella seconda serie».
«Una cosa l’ho capita: la domanda fondamentale non è credi? Non credi? Ce n’è una più decisiva: perché non si può fare a meno dell’esigenza di Dio, di un rapporto di negazione o di abbraccio? Nessuno, neanche un agnostico, riesce a eludere questo domandone: essendo superiore alle mie possibilità io non ho trovato risposta, ma uno più intelligente di me, lo studioso di teologia Jack Miles, autore di Dio: una biografia, sostiene che è il più grande personaggio letterario mai esistito, così grande che lo conosciamo abbastanza in dettaglio anche senza aver letto la Bibbia. È così potente che ci invade la vita al di là dal nostro assenso. The Young Pope è un’indagine su uomini e donne, ma sono soprattutto uomini, che fanno un matrimonio molto stretto con qualcuno che materialmente non c’è, Dio. Su una relazione con Dio vissuta in modo diverso da noi, che ogni tanto ci ricordiamo di lui e continuiamo a farci i fatti nostri. No, quello è un rapporto ingombrante, è come aver un marito o una moglie che ti dice continuamente cosa fare o non fare».
E c’è il mistero, una suspense mistica, quasi hitchcockiana che crea l’attesa del miracolo, dell’irruzione del soprannaturale. Sister Mary porta dei guanti a mezze dita: avrà le stigmate?
«No, i guanti se li è voluti mettere Diane Keaton per motivi suoi, forse per coprirsi le mani. Ma la propensione al soprannaturale della Chiesa cattolica è uno dei motivi che mi ha spinto a fare questo lunghissimo film, che non considero una serie, ma un film come gli altri che ho girato, più libero nella scrittura, quasi come un romanzo, senza il limite delle due ore, e molto più faticoso. L’unica regola televisiva che ho osservato è l’elemento di interesse alla fine di ogni episodio che fidelizza il pubblico. Ed è vero che c’è la suspense: ho disseminato quello che i credenti definiscono il mistero non umanamente comprensibile, la dimensione del prodigio, che il mago Silvan definirebbe un trucco, mentre Wojtyla obietterebbe che è Silvan a essere un cialtrone. La Chiesa prevede una messinscena suggestiva di santi, beati, miracoli, rivelazione: una sfida irresistibile per un regista».
«Vengo da una famiglia dove tutti i parenti avevano visto fantasmi o munacielli e raccontavano cose incredibili. Sono cose che mi hanno molto impressionato da bambino, influendo sul mio rapporto con la realtà e la paura. Ma oltre le superstizioni la materia è molto più affascinante. Anche se uno come me fatica ad afferrarne il senso: l’altro giorno parlavo con una donna di una certa età che mi sembrava di un’intelligenza meravigliosa, che poi ha detto: “Ora vado a messa, come tutti i giorni”. Mi ha colpito: la sua razionalità, la larghezza di vedute stridevano con la fede, c’è un corto circuito che non riusciamo a capire, come se credere nel trascendente fosse un attentato all’intelligenza. Invece la maggior parte degli studiosi del cattolicesimo sono fra gli intellettuali più attenti, profondi e speculativi, proprio perché sono abituati a porsi domande».
«Anche i mariti e le mogli non vorrebbero tradire il sacramento del matrimonio, ma succede. Il mio bravo consulente per le cose vaticane Alberto Melloni, che ne sa più di me, dice che sarà amata dai preti intelligenti. Da quelli che vogliono capire i lati oscuri e meravigliosi delle loro biografie. C’è anche chi ha avuto da ridire sul fatto che ho raccontato un papa conservatore mentre adesso Francesco sta rivoluzionando la Chiesa. Sempre Melloni mi ha avvertito che non è affatto improbabile che il prossimo papa sia un restauratore del vecchio ordine. È l’alternanza».
«Perché è molto sciocco. E la battuta, che è la quintessenza della stupidità, gli si addice. Questa citazione di Antonioni l’avevo già inserita in This Must Be the Place: anche a Sean Penn facevano male, i capelli, poi l’ho tagliata».
Belardo fuma, come sister Mary e il cardinal Dussolier, compagno di orfanotrofio del futuro papa. C’è un senso nascosto in questo fumo che aleggia?
«No. E comunque pure Ratzinger fumava. Le Marlboro, lo so per certo. È un tratto comune agli orfani, anche sister Mary lo è: dipende dallo stress e dalla libertà di abbracciare tutti i vizi».
«È irrilevante».
«Uno parla sempre di se stesso, a volte in maniera più diretta altre meno».
«Non lo so, non lo so. A volte mi vengono queste immagini, le trovo potenti, intense, e decido di metterle, con disinvoltura, perché nascono con un’intuizione istintiva. Poi affiora un collegamento con la storia, una plausibilità che, in questo caso, devo ancora scoprire. Un bambino di sette anni abbandonato ha necessariamente a che vedere con la morte. E quella è una piramide di morte perché quando i tuoi genitori ti abbandonano – non muoiono, ti abbandonano, ed è ancora più doloroso – non c’è niente di più vicino alla morte. Il fatto che Belardo, diventato adulto, esca da questa morte e diventi una guida dei vivi è una specie di resurrezione».
«Twin Peaks ha rivoluzionato il genere. E recentemente mi sono piaciute molto True Detective e Fargo. È meravigliosa, True Detective, perché indaga la storia dei due poliziotti, le relazioni, le donne, il Delta, ma non mi ricordo chi è morto all’inizio e chi è il colpevole alla fine. Invece mi ricordo l’atmosfera, la fatica di stare al mondo dei personaggi. Forse quel che ho fatto è simile, perché in The Young Pope le storie ci sono, c’è il rapporto tra religione e potere e la buona fede o la malafede che possono segnare questo rapporto; c’è l’eterno conflitto con il segretario di Stato progressista; c’è il vecchio cardinale mentore di Belardo che voleva diventare papa e, quando viene eletto il suo discepolo, cade in depressione, ma poi si rimette in gioco; c’è un accenno alla pedofilia, c’è tanta narrazione che di solito non metto nei miei film, ma non solo quello. Il centro di una serie su delle persone che se la vedono con Dio non può essere solo la trama: sarebbe stata un’occasione sprecata. Perché la cosa che mi piace nelle storie belle è proprio il racconto della fatica di stare al mondo».
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