di Valerio Valentini
Sembra talmente banale, appena usciti dal cinema, parlare di Suburra come di un ritratto fedele e profetico del marciume romano svelato dalle inchieste di Mafia Capitale, che quasi verrebbe voglia di concentrarsi soltanto sul modo in cui lo squallore affaristico e mafioso raccontato nel romanzo di Bonini e De Cataldo è stato trasferito su pellicola. Ma prima di parlare delle scelte stilistiche di Stefano Sollima – e dei motivi per cui, diciamolo subito, il film non sembra del tutto all’altezza delle aspettative create da un battage pubblicitario imponente – prima di tutto, due parole a proposito della criminalità capitolina su cui Suburra porta a riflettere.
«Eravamo i più potenti perché eravamo gli unici che sparavano». Così è stato spiegato, da chi lo ha esercitato in prima persona, il predominio della Banda della Magliana sulla Roma degli anni ’70 e ’80. Un potere che non era pura violenza, ma che alla violenza faceva ricorso con una disinvoltura inquietante. «Sì, sono disposto a sparare personalmente un colpo in testa all’avvocato Taormina, se continua a fare riferimenti alla mia famiglia»: così parlava Maurizio Abbatino davanti ai giudici, nel corso di un processo in cui era coinvolto, nel marzo del 1997. La violenza come linguaggio prediletto, come impulso incontrollabile. Erano questo, per lo più, i protagonisti di Romanzo Criminale: il Freddo, il Libanese, il Dandi. Anzi no, il Dandi no: il Dandi era già il prototipo di un boss nuovo, che nel tempo acquisiva sempre più la mente del faccendiere silenzioso, abbandonando gli abiti da gangster.
Ebbene, il personaggio interpretato in Suburra da Claudio Amendola ha portato a termine questo tipo di trasformazione. Lo ha fatto a tal punto che un suo ex compagno di batteria ai tempi della Banda della Magliana, tenuto in naftalina da vent’anni di prigione e pronto a tornare alle vecchie maniere criminali appena uscito dal carcere, quando lo incontra fatica a riconoscere in quell’uomo distinto il «guerriero» di un tempo, «fedele alla causa». Niente più romantiche utopie da camerata («Io l’ideale me lo porto nel cuore e basta»), niente più propensione agli omicidi («Coi morti bisogna annacce piano, so’ difficili da maneggià»): il vero potere di Samurai, come riconoscono i suoi alleati e i suoi rivali, consiste nel fatto che lui «sa un sacco di cose». Il ricorso alle armi può semmai ribadire, in certi casi, le gerarchie del potere; ma la necessità di ricorrere alle armi,di quel potere sancisce più spesso la decadenza. Conoscenze trasversali, informazioni privilegiate, accesso alle stanze private di parlamentare e cardinali: è di questo che è fatta la forza della leadership di Samurai,garante di accordi molto più grandi di lui e che coinvolgono famiglie di camorristi e ‘ndranghetisti.
Sarebbe il caso di richiamare alla mente questo ritratto – un ritratto stilizzato, certo, ad usum delphinii – ogni volta che qualcuno tenta di liquidare le vicende di Mafia Capitale come le disavventure di quattro «tangentari all’amatriciana» (cit. Matteo Renzi). Era forse il caso che qualcuno lo tenesse a mente, un simile ritratto, anche nei tanti anni in cui si è negata la presenza mafiosa a Roma, in cui tutto veniva declassato a pistolettata di borgata. Davvero Bonini e De Cataldo (e pochi altri visionari) sono stati gli unici osservatori dotati di capacità divinatorie, a Roma, nell’ultimo decennio? Davvero era impossibile intercettare i segnali della mutazione che la criminalità organizzata viveva nella capitale? In una conferenza tenuta a Trento nel giugno del 2012, Pignatone raccontò che, appena insediatosi al vertice della Procura di Roma, i suoi nuovi colleghi lo misero al corrente, con una certa noncuranza, di un fatto strano che registravano ormai da un po’ di tempo: alcuni locali nel centro della città, anche quelli che ospitavano negozi prestigiosi, improvvisamente venivano abbandonati e restavano sfitti per alcune settimane, per poi essere comprati – fatto inspiegabile – a prezzi insolitamente bassi da acquirenti insolitamente anonimi. Davvero era così difficile, capire?
La Roma protagonista di Suburra è una città in cui non si salva nessuno. Ed è significativa, in questo senso, la rimozione nella sceneggiatura del film (Rulli e Petraglia hanno lavorato accanto a De Cataldo e Bonini) di tutti i buoni presenti nel romanzo, primo fra tutti il colonnello Malatesta. Ma in questo bestiario di criminali e politici corrotti, non c’è solo il Male: c’è Roma, tutta intera. Suburra non incoraggia – come era stato ipocritamente rimproverato a Romanzo Criminale o alla serie Gomorra– una visione eroica di boss e faccendieri, ma neppure consente una sbrigativa autoassoluzione da parte di chi guarda,convinto di potersi ritenere del tutto estraneo a quel mondo degenerato. Innanzitutto perché anche i personaggi più spietati rivelano una loro umanità (l’amore viscerale che lega Numero 8 e Viola, le attenzioni che Samurai riserva a sua madre, l’ingenuità sincera di Sabrina); e in secondo luogo perché il film non ammette l’esistenza di alcun confine, tra Bene e Male, che non possa essere scavalcato con facilità estrema, per motivi perfino casuali.
Nel degrado in cui tutti rischiano di annegare, nessuno rifiuta di ricercare il suo misero boccone di successo. Una prostituta che non regge gli eccessi di un festino con un parlamentare è una disgraziata sprovveduta o un’arrivista che ambisce ad una promozione in ambienti che non le competono? E un anziano imprenditore che pur di espandere i suoi traffici entra in affari con un clan malavitoso, venendone annientato, è una povera vittima o un complice ottuso? Gli intrallazzi di Samurai, la sua progettualità perversa ma solidissima, sembrano garantire non solo gli interessi di pochi mafiosi, ma un intero sistema pericolante in cui tutti s’affannano nelle loro meschine ambizioni. Mentre la telecamera mostra corpi disperati annegare nel Tevere, e nel farlo non può tuttavia rinunciare a esibire lo splendore notturno di un Castel Sant’Angelo meravigliosamente illuminato, viene da pensare che lo squallore di Suburra sia il controcanto necessario della grande e pacchiana bellezza fotografata da Paolo Sorrentino.
E insomma il punto è questo: commentare Suburra come il resoconto delle recenti inchieste su Mafia Capitale sarebbe limitativo, e rischierebbe di non cogliere le reali intenzioni di Sollima. Il quale non ha voluto fare un film cronachistico, ma piuttosto allegorico.Vanno in questo senso anche le altre, e più importanti, infrazioni della sceneggiatura rispetto al romanzo. Come, ad esempio, quella che riguarda la scansione temporale: la narrazione si sviluppa nell’arco di sette giorni, ben separati l’uno dell’altro attraverso lunghe transizioni al nero, che portano a quella che, con estrema sobrietà e senza alcuna retorica, viene definita «l’Apocalisse».
Non si racconta, dunque, la vicenda criminale di un Carminati qualsiasi, ma si registra lo sfaldarsi definitivo di un potere che cede sotto il suo stesso peso, non sorretto da radici divenute ormai marce. Sono gli ultimi spasimi di un sistema decrepito, che in un delirio di supposta onnipotenza corre dritto contro la propria autodistruzione. L’Apocalisse, appunto: che però coincide con un fatto assai reale. La fine del mondo è fissata il 12 novembre 2011, quando un’auto blu esce da Palazzo Chigi (Palazzo Grazioli avrebbe tolto alla scena il suo valore paradigmatico, riducendo il Potere nella banale persona di un imprenditore brianzolo con la passione per le giovani donne) per condurre il Presidente del Consiglio a rassegnare le dimissioni dal Capo dello Stato (che è però chiamato col suo vero nome, ché forse Giorgio Napolitano è più epico, più archetipico, del suddetto imprenditore).
È qui, insomma, che qualcosa, nel marchingegno narrativo di Sollima, s’inceppa: in questo intrecciarsi caotico tra riferimenti ad una storia e astrazioni nel campo dell’allegoria. L’equilibrio tra indagine documentaristica e analisi della metafisica del potere si perde ben presto in un pastiche senz’altro coinvolgente, ma che a volte disorienta. Far resistere un gangster movie di oltre due ore in bilico nel punto introvabile in cui Martin Scorsese incrocia Elio Pietri – in cui Casinò incontra Todo modo – è un azzardo che quasi a nessuno potrebbe riuscire: e a Sollima, per buona parte del film, non riesce.
Gangster movie, sì, perché in fondo la scelta di Sollima è quella di fare un film di genere di respiro internazionale. Scelta legittima, e che sembra esser stata apprezzata, se Netflix ha già deciso di produrre una serie tratta da Suburra e di distribuirla in giro per il mondo. Eppure, proprio in questo intento di aderire ai canoni del genere, Sollima rinuncia a una buona parte della sua originalità (quella che si apprezzava nei suoi precedenti lavori) e si costringe in una camicia di forza espressiva che finisce inevitabilmente per portarlo al manierismo. Certe scene sembrano trovare il loro senso soltanto nel loro essere funzionali a dar sfoggio delle capacità tecniche della regia (che ci sono, ma che raramente risultano al servizio della narrazione): la sequenza in cui Viola e il suo scagnozzo fuggono in auto dal centro estetico a cosa serve, se non a questo? Suburra è stato pensato come un film travolgente, che trascini lo spettatore in un vortice interminabile di azione e pathos. Ma questo ritmo asfissiante sembra essere ricercato con una insistenzaossessiva, e alla fine si rivela per quello che è: un accumulo disordinato. Non a caso la musica – di solito uno degli elementi più sorprendenti del linguaggio cinematografico di Sollima – qui risulta spesso un ingombro invadente, a cui è demandato il compito di accrescere una tensione che in realtà non sembra mai esplodere del tutto.
Suburra è insomma un film che appaga quell’ansia di eccitazione e intrattenimento un po’ coatta a cui Sollima da sempre strizza l’occhio, e che molto spesso esalta anche i meno fanatici. Ma forse è proprio in questo sue essere più scintillante del dovuto, in questa sua smaniosa aspirazione all’internazionalità, che rivela le sue debolezze, e in definitiva la sua provincialità.