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Channel: Paolo Sorrentino | minima&moralia
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Sorrentino sorrentineggia

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(spoiler, pochi)

Tutti i film di Paolo Sorrentino sono metafilmici, citazionisti, omaggi talmente manifesti a un immaginario cinematografico, musicale, pittorico, da essere pieni di sosia e di cloni; e anche questo non fa eccezione. Anzi potremmo dire che comincia a citare se stesso.
Tutti i film di Sorrentino sono delle rimodulazioni di un’idea di cinema in cui l’immagine sullo schermo è sempre il tentativo di ritrovare un’immagine primaria – come se tutti i personaggi andassero in ricerca della loro personale Rosebud (del resto i protagonisti per certi versi non assomigliano tutti a Charles Kane di Quarto potere?) – e anche questo non fa eccezione.
Tutti i film di Sorrentino hanno al centro degli uomini solitari e disincantati: cinici come Titta Di Girolamo delle Conseguenze dell’amore, impenetrabili come Il Divo Andreotti, caustici come Jep Gambardella della Grande bellezza, o apatici, come si dichiara di essere Fred Ballinger in Youth; e a un certo punto, in tutti i suoi film, e anche questo non fa eccezione, questi uomini raggelati, anedonici, vicini a spegnersi, riscoprono la vita, la capacità di emozionarsi attraverso un incontro, un’epifania, il confronto con la morte.
Forti (o deboli) di questa concezione elementare fatta di contrasti netti (freddo/caldo, luce/buio, giovinezza/vecchiaia, vita/morte), tutti i film di Sorrentino non hanno una sceneggiatura che si muove intorno a una storia, ma si dipanano come una serie di quadri che si sovrappongono per stratificazione e accumulo: non c’è mai un vero mordente, quello che tiene il filo della tensione è una sorta di ricerca nostalgica, inesausta, di una felicità perduta (prendete le immagini sognanti del mare nell’Uomo in più o della Grande bellezza)

Così anche vedere Youth fa quest’effetto: se c’è qualcosa che è accaduto, questo qualcosa è successo moltissimo tempo prima della prima scena del film. I due omonimi Antonio Pisapia dell’Uomo in più erano un calciatore e un cantante in declino, Titta di Girolamo era un uomo che si è ritirato da anni dalla vita e fa il travet per la criminalità in un albergo in Svizzera, Andreotti è stato un uomo di potere che ha retto le sorti di una nazione intera ma ora quel potere sta svanendo, Cheyenne di This must be the place è un ex rockstar bolsa che era famosa negli anni ottanta, Jep Gambardella uno scrittore che trent’anni fa ha scritto un bellissimo e ne vive ancora all’ombra, e da ultimo Fred Ballinger (Michael Caine) è un anziano compositore che ha deciso di abbandonare la musica e ritirarsi in pensione.

Ora non fa che ciondolare – vacanza, buen retiro? – in un albergo di lusso, a metà fra un resort, una spa e la versione aggiornata del sanatorio della Montagna incantata, in Svizzera: qui con il suo amico regista Mick Boyle (Harvey Keitel), altro artista dal passato glorioso, trascorre quella che sembra un riposo lungo e autoimposto, riflettendo sul tempo che è stato e su quello che sarà, circondato da una serie di personaggi anche loro tutti bloccati nell’ambra di una bolla temporale sospesa. Abbiamo: un giovane attore in crisi (Paul Dano), che – come una specie di Birdman – non sa come smarcarsi dal personaggio di un film blockbuster in cui tutti lo identificano; una coppia che cena dopo cena non si rivolge la parola, la figlia di Fred che deve elaborare un abbandono (Rachel Weisz), uno scalatore a riposo tra un’impresa e un’altra, una squadra di sceneggiatori hipster al soldo di Mike che cercano l’ispirazione per il suo film; un bambino che sta imparando a suonare il violino esercitandosi proprio su brani di Ballinger; e – da ultima – la figura perturbante di uno uomo tozzo, ciccionissimo e malandato che è Diego Armando Maradona o un suo sosia perfetto.

Ed è per questo che è in fondo equivalente per Sorrentino muovere la cinepresa accelerando il ritmo o rallentandolo – i ralenti anche in Youth si alternano a montaggi serratissimi ed ellittici – perché di fatto tutti i suoi film sono dei fermi immagine che si allargano.

Questi film immobili creano un’estetica dolorosamente anticinematografica (paragonatela all’adrenalina puberale di Grand Budapest Hotel o alla iperdrammaticità di Sils Maria, per citare due film recenti con un’ambientazione simile), e in questo senso quando riesce quest’estetica è struggente, quando non riesce – purtroppo spesso – è kitsch. I personaggi pronunciano sentenze che vengono lasciate echeggiare, come se ogni parola pronunciata fosse la definitiva. Se ancora possiamo percepire l’onda lunga di frasi tipo “Io non volevo solo partecipare alle feste, volevo avere il potere di farle fallire”, qui la sceneggiatura (scritta dallo stesso Sorrentino) ne inanella almeno una trentina dello stesso tenore gnomico: da “Le monarchie fanno tenerezza. Basta eliminare una persona e all’improvviso il mondo cambia” a “La leggerezza è un’irresistibile tentazione” a “Le emozioni sono sopravvalutate” fino all’esorcistica “La vita sono sforzi immani per risultati modesti”…
Accanto a queste scene di dialogo quasi irreali nella loro astrattezza ci sono momenti visionari, molti sogni, schegge allucinate, flash, che sono pensati e realizzati spesso con uso invadente (a volte intradiegetico) della musica e con una fotografia talmente raffinata e perfetta – un lavoro magistrale di Luca Bigazzi – da creare all’interno del film quelli che potrebbero essere dei corti di video-arte, o dei trailer di installazioni fotografiche.

Riescono a essere coinvolgenti questi quadri, questi tableaux vivants? Risultano ambivalenti: spesso non sono credibili, sono artificiose, volutamente (c’è più di un momento in cui il regista Mike fa l’elogio della finzione) artificiose; alle volte invece sono icastiche, esemplari, taglienti. E quindi la nostra capacità di commozione altalena tra la reazione che possiamo avere di fronte a uno stereotipo e quella che riusciamo ad avere di fronte a un archetipo.
Così, a momenti Youth come tutti i film di Sorrentino ci sembra volgare, cafonal o pubblicitario, in momenti – più rari – ci sembra potente. Per fare un esempio: la scena del concerto immaginario che Fred dirige sedendosi su un tronco circondato dalle mucche e dai suoni dei loro campanacci per certi versi ha la naturalezza toccante di un sogno infantile, per altri sembra uno spot fatto benissimo della Milka.

Fred dice a un certo punto: “Gli intellettuali non hanno gusto, e io ho fatto tutto quello che si poteva per non diventare un intellettuale”; e questo sembra essere il manifesto criptato di Sorrentino. Che nella non ricerca di gusto, nel calcare la mano su ogni dettaglio, nel ritenere che ogni scena debba essere una scena madre, nell’allungare l’inquadratura, nel prolungare la colonna sonora per riempire ogni possibile spazio, nel mettere un punto alla fine di ogni frase pronunciata, eccetera… delinea un suo stile trasparente.
Cosa sembra che ci voglia raccontare? La tragedia inguaribile dello scorrere del tempo.
Per questo i primi piani sul corpo flaccido di Michael Caine, l’icona per antonomasia dell’eleganza, valgono da soli come dichiarazione di poetica. La morte è sempre un passo accanto a noi, e l’unica possibile protezione è il rifugio in una sorta di sogno libidico – qui in Youth, come in tutta la cinematografia di Sorrentino, le donne non hanno praticamente mai una loro autonomia di desideri e rimpianti, ma sono più angeliche vittime o salvifici oggetti del desiderio.

Per questo la scena più bella è una specie di corpo estraneo a tutto Youth ed è un monologo serratissimo, livido, straziato di Leda – la figlia di Fred (Rachel Weisz) – diretto al padre: un lungo primo piano stretto che dura un minuto e passa, ed è uno strappo feroce; in contrasto con il nitore formale di tutto il film, all’opposto – per dire – con la scena finale di levitazione che vale l’ardita scelta dei fenicotteri rosa della Grande bellezza.

Piccoli appunti in aggiunta:

Sorrentino ha un problema con i finali, li estenua, si era già notato già nella Grande bellezza. Anche qui per due tre volte, invece di chiudere in levare, aggiunge enfasi a scene belle ma che ogni secondo in più si caricano però di stucchevolezza;

il film è stato pensato e girato per essere un film internazionale; ed è davvero una pena immeritata per il pubblico italiano che la Fox Searchlight (che si occupa della distribuzione negli Stati Uniti) per evitare i rischi di pirateria non abbia consentito di proiettarlo nelle nostre sale anche in lingua originale (c’è da dire, è vero che l’elemento di artificiosità che abbiamo citato probabilmente si accentua molto anche per il doppiaggio);

le interpretazioni degli attori sono alterne: Paul Dano è un virtuoso, Harvey Keitel gigioneggia, Jane Fonda fa un cameo notevole, di Rachel Weisz abbiamo detto, gli sceneggiatori hipster sono macchiette, Madalina Ghenea (una nuda Miss Universo) si poteva evitare, i due attori bambini sono costretti a bambineggiare; un tributo speciale però va a Michael Caine, che si supera nel rendere emozionante un personaggio che la sceneggiatura ha voluto apatico e elusivo, e ci riesce con una recitazione tutta implosa, fatta di sguardi infragiliti, e di gesti accennati, di un’introversione che fa da contraltare all’esibizione smodata di Sorrentino;

i movimenti di macchina sono inappuntabili, c’è un piano sequenza sulla schiena di Maradona che esce dall’acqua all’inizio e un rapido dolly che termina sul volto di Fred alla fine che segnano quell’oscillare continuo tra senso del grottesco e senso del tragico che Sorrentino ricerca – che ci riesca o meno, la sua tecnica è indiscutibile;

l’insistenza sul valore della musica risulta troppo esplicito per essere coinvolgente: dichiarato dall’inizio che vuole essere un film su un grande musicista in pensione, questo rapporto così tormentato di Fred con la musica viene più dichiarato che svolto: anche se ci sono un paio di trovate interessanti e un finale liberatorio, sembra quasi che Sorrentino non sia riuscito a scegliere tra molte metafore quelle più potenti, per cui i molti elementi musicali (dai ritmi minimali a scene schiacciate da una sorta di wall of sound) non riescono a essere sintonici (c’è da dire che i Cahiers du Cinema l’hanno massacrato, scrivendo: Youth sta al cinema come Rondò veneziano sta alla musica classica);

l’omaggio esplicito a Francesco Rosi alla fine, e implicito a Carlo Lizzani e Mario Monicelli, è una delle cose più belle del film, l’ultima inquadratura è un tocco di classe.


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